Un robusto uomo di
mezz’età, barba fra il biondo ed il rossiccio, capelli crespi spolverati di
bianco, gote rubiconde e sguardo segnato, vestito d’una camicia a quadri,
pantaloni pesanti, guanti di gomma e stivalacci, sta spazzando mestamente le
scale dell’ingresso di una cappella, in aperta campagna.
-
Piacere, mi chiamo
Oliviér, le spiacerebbe farmi una fotografìa con la mia macchina
fotografica, davanti a questa sporcizia ?
-
Vincenzo Rialdi,
piacere mio, certo che posso … perché me lo chiede ?
-
Glielo chiedo perché è
una vergogna che il comune non porti rispetto ai morti innocenti
di questa
valle. E poi, oggi è Pasqua e nessuno è venuto ad aprire i cancelli.
Voglio portare la fotografìa ai giornali.
La fotografìa viene scattata.
-
Noi portiamo rispetto.
Siamo saliti fin quassù solo per onorare le vittime di questa valle.
Era
da bambino che volevo venire e finalmente ci sono riuscito. E torneremo
ancora.
Veniamo da Genova.
-
Grazie, grazie per
essere qui.
-
Non ci deve ringraziare. Le posso fare una
domanda ?
-
Tutte le domande che
vuole.
-
Solo una, e mi scuso se
fosse importuna: aveva dei parenti fra le vittime ?
-
Mi ero appena diplomato
perito geologo. Ero partito per Milano, dove mi avevano assunto.
Ero al
mio primo impiego ed ero felice. Poi, una notte, la mia montagna è venuta
giù
e si è portata via tutta la mia famiglia. Tutta. E io sono rimasto
solo al mondo.
Era meglio se restavo qui.
Non una parola di più per una conversazione
che si è conclusa con una stretta di mano di un calore irripetibile e
quattro occhi rossi e gonfi di lacrime.
La cappella è ad un passo dal ciglio di una diga.
Non è una diga qualunque.
Un arco a doppia curvatura in calcestruzzo di
duecentosessantacinque metri, spesso alla base ventisette metri, capace di
trattenere oltre centocinquanta milioni di metri cubi d’acqua, costruita in
soli due anni.
E’ la diga del Vajont: un imponente capolavoro
dell’ingegno umano, una bandiera della tecnica tutta italiana, un esempio di
alta tecnologìa destinato a fare scuola nel mondo, “a memoria eterna del
trionfo dell’uomo sulle forze della natura”, come scrisse con avventatezza
un giornale dell’epoca.
La diga del Vajont,
vista da valle
Mercoledì 9 ottobre 1963, ore 22:39.
Si consuma il più grave disastro idrogeologico
della storia recente del nostro paese.
Con un boato udito fino a Venezia, dal monte Toc, che si erge di fronte a Casso ed al fianco di Erto in un’alta e bella
valle che domina il tratto in cui il Piave spiana ed accoglie la cittadina
di Longarone, si staccano trecento milioni di metri cubi di roccia con un
fronte largo due chilometri e piombano a quasi cento chilometri l’ora, in un
unico blocco, nel lago artificiale formato dal torrente Vajont.
Monte Toc: veduta di parte del fronte della frana
Un'onda di acqua e detriti di cinquanta milioni
di metri cubi ed alta duecento metri si alza in cielo.
Di questi, venticinque milioni di metri cubi
scavalcano la diga e piombano nella stretta gola che porta alla piana del
Piave.
In quota, l’acqua lambisce e danneggia Casso,
che è protetto da una parete verticale di roccia e mette in ginocchio Erto,
che è dalla parte opposta del bacino.
L’acqua che scende dalla valle, costretta fra
le pareti rocciose della gola, acquista sempre più potenza.
La prima ad uccidere è l’onda d’urto dell’aria,
compressa dalla massa d’acqua, che sradica tutto quello che incontra a
Longarone: uno sporco vento mortale che non risparmia nulla.
Poi arriva l’acqua. Un’onda alta settanta metri
che percorre milleseicento metri in poco meno di quattro minuti.
Acqua e detriti rocciosi devastano dove l’aria
non era riuscita.
Gli unici a salvarsi sono i pochi che riescono
ad arrampicarsi sulla collina opposta, dove l’acqua si spinge in altezza per
più di sessanta metri.
La stessa acqua che era risalita, ripiomba
sulla valle seppellendo ogni cosa nel fango.
In pochi minuti, Longarone non esiste più.
Parte della massa d’acqua rimonta il Piave per
diversi chilometri ed allaga ogni lembo di terra fino a smorzarsi.
A valle, un’onda che venti chilometri più a sud
era alta ancora dodici metri con una portata di cinquemila metri cubi al
secondo devasta le cittadine di Codissago, Castellavazzo, Villa Nuova,
Pirago, Faè, Rivalta.
Poi, il buio ed il silenzio, eterni per
millenovecentodiciassette innocenti.
Il monte Toc aveva avvisato:
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prima con il
suo nome, che in dialetto locale significa monte “che va a pezzi”, “a
tocchi”;
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successivamente, con chiari movimenti di assestamento, confermati da
accurate indagini geognostiche, che rivelavano la pericolosità del progetto;
-
poi, con una
frana di dimensioni ridotte che, tre anni prima, aveva incredibilmente
confortato i tecnici dell’impresa costruttrice circa le capacità di
resistenza della diga e la tenuta del fronte della frana;
-
in ultimo,
quattordici ore prima del disastro, con fratture evidentissime che facevano
piegare gli alberi e con sordi boati, causati dal susseguirsi degli
assestamenti, che rimbombavano minacciosi nella valle.
La tragedia ha bussato. Poi, ha sfondato la
porta.
Cedimenti, crolli o frane in prossimità di
bacini artificiali sono eventi molto frequenti: dal dodicesimo secolo ad
oggi se ne sono registrati oltre duemila, dei quali più di trenta negli
ultimi cent’anni, le cui cause sono per lo più da attribuirsi all’imperizia
nella progettazione o nella realizzazione delle opere dedicate.
Alla fine del 2001, con le sue quasi
cinquecento dighe in esercizio, le più di quaranta dighe in costruzione e le
quasi venti dighe in fase di avanzata progettazione, l’Italia è al quarto
posto nel mondo per il numero di invasi artificiali, ed al primo posto se
vengono considerati i circa diecimila bacini idrici con muraglioni di
contenimento inferiori ai dieci metri.
L’indiscriminata e forzata artificializzazione
ed impermeabilizzazione del territorio, talvolta spinta più dagli interessi
che da reali esigenze, è all’origine di un potenziale aumento della
pericolosità del reticolo idrografico italiano, vista l’imprevedibilità
della risposta dei terreni all’enorme pressione delle acque intrappolate in
un invaso che non si sono create da sole.
E la diga del Vajont ?
La diga è rimasta intatta, nemmeno una
scalfittura.
In tutta la zona, è l'unica costruzione che ha
resistito.
Oggi è un imponente monumento all’inettitudine
umana.
L’uomo voleva trionfare sulle forze della
natura e la natura si è beffata dell’uomo.
La presuntuosa e maldestra opera dell’uomo è
riuscita a scatenare quanto la natura, da sola, non sarebbe mai stata capace
di fare.
Il dissacrante romanziere francese
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) scrisse: "La natura è una cosa spaventevole, anche
quando è fermamente addomesticata”.
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