La
vita di Dante Alighieri fu scandita da avventurosi eventi che lo portarono a
rincorrere una tranquillità mai raggiunta.
Presumibilmente per questo motivo, nulla di ciò che gli è appartenuto è
arrivato ai giorni nostri, neppure uno scritto autografo; possiamo però
fortunatamente godere delle sue opere che rappresentano la testimonianza
delle sue conoscenze e della sua eccelsa capacità di trasformarle in arte
poetica.
La figura femminile cardine della sua esistenza fu quella di Bice di Folco
Portinari (più nota come Beatrice, della quale si era innamorato già alla
tenera età di nove anni) che elesse ad ispiratrice di tutte le sue opere.
Dante Alighieri (1265-1321)
Pochi anni dopo la prematura morte di Beatrice,
per volere del padre (Alighiero di Bellincione) sposò Gemma Donati che gli
diede i figli Giovanni, Jacopo, Pietro ed Antonia.
Ma il vero amore, inteso in senso assolutamente platonico e tendente al
divino restò quello verso Beatrice che continuò a celebrare
ininterrottamente nei suoi scritti.
Egli, di nobile famiglia guelfa, fu combattente a Campaldino contro i
ghibellini di Arezzo e ricoprì cariche pubbliche nella qualità di medico e
speziale.
In seguito fu eletto priore e fu condannato a pagare un'elevata ammenda ed
esiliato con l'accusa di baratteria (mercato fraudolento di cariche
pubbliche: "quivi mi misi a far baratteria") e di ostilità verso il papa (Bonifacio
VIII, dopo che i guelfi di parte nera s'impadronirono del potere con l'aiuto
di Carlo di Valois), dal quale si era recato per placare la sua ira nei
confronti dei guelfi di parte bianca. Successivamente fu condannato al rogo
in contumacia poiché non si presentò per giustificarsi.
Nella vana attesa di rientrare nella sua Firenze, domandò ed ottenne
ospitalità presso diverse corti italiane, in particolare quelle degli
Scaligeri a Verona e dei Malaspina in Lunigiana.
La discesa di Arrigo VII in Italia per farsi
incoronare imperatore da papa Clemente V, lo illuse ancora una volta ma la
morte dello stesso Arrigo VII e l'opposizione dei fiorentini fecero
naufragare le sue speranze, anche perché egli stesso rifiutò di fare
pubblica ammenda (farsi pubblicamente cospargere il capo di cenere), gesto
che gli avrebbe permesso di ottenere l'amnistia prevista per gli esuli.
Se Dante fu costretto ad errare da vivo, anche le sue spoglie non godettero
certo di tranquillità. Quando la morte lo colse nel 1321 a soli 56 anni, il
suo corpo venne tumulato, come noto, nella chiesa di San Francesco in
Ravenna, dove si trovava per aver trovato asilo presso Guido Novello da
Polenta, signore di quella città.
Sei anni dopo, il Legato pontificio di Lombardia dichiarò eretica l'opera
dantesca "Monarchia" ed ordinò che venisse bruciata insieme ai resti del suo
autore, condannato così anche da morto, a salire sul rogo. Fu solo in
seguito a circostanze fortuite che ciò non avvenne.
Con il trascorrere del tempo si affievolirono i rancori ed al loro posto
subentrò l'ammirazione.
Intorno al Quattrocento, Firenze domandò la restituzione di quel suo figlio
d'eccezione ma Ravenna rifiutò. Ci volle ancora un secolo ed una richiesta
di quelle che non si potevano rifiutare poiché caldamente appoggiata da papa
Leone X, che di famiglia era un De Medici, per ottenere il consenso al
trasferimento della salma.
Il corpo di Dante non poteva tuttavia ancora riposare in pace. Infatti,
quando fu aperto, il sepolcro fu trovato vuoto. Le autorità ravennati,
comprensibilmente imbarazzate, non seppero fornire spiegazioni per
l'increscioso accadimento, ed i fiorentini dovettero rassegnarsi
all'evidenza.
Le spoglie di Dante erano dunque scomparse e
nessuno fu in grado di rispondere alle domande: quando, come, perché e ad
opera di chi.
Il mistero rimase fittissimo fino al 1865, anno un cui fu deciso il restauro
del suo sepolcro vuoto, che nel corso dei secoli era stato comunque visitato
ed onorato. Durante i lavori, un operaio, aprendo una breccia in un muro,
scoprì una cassetta di legno: essa conteneva ossa umane ed una lettera
risalente al 1677, a firma del priore del convento, attestante che i resti
erano quelli del corpo di Dante Alighieri, trafugati ed occultati dai frati
per impedirne il rimpatrio a Firenze.
Dove fossero rimasti i poveri resti dal 1519, anno in cui il sepolcro fu
trovato vuoto, al 1677, anno in cui furono murati in quel nascondiglio, è un
enigma a tutt'oggi irrisolto.
Con pubbliche cerimonie e grandi onori, le spoglie mortali del sommo poeta
furono ricomposte nella loro urna.
Sembrava proprio che Dante potesse finalmente trovare quella pace che non
ebbe né da vivo né, fino a quel momento, da morto. Ed invece, nel 1878
giunse presso la biblioteca Classense (Sant'Apollinare in Classe, frazione
di Ravenna) un pacchetto contenente alcune ossa che si dichiarava
appartenessero al poeta, sottratte durante il ritrovamento del 1865. Nel
1886 giunse al municipio di Ravenna un cofanetto contenente altre ossa. Ed
un'altra scatoletta arrivò anche nel 1900.
Forse questi ritrovamenti erano opera di mitomani o forse furono gli stessi
frati del chiostro di San Francesco a suddividere in diversi contenitori i
resti del poeta per avere la certezza di salvarne almeno una parte.
Nel 1921 si ritenne necessario effettuare un rigoroso esame scientifico dei
resti che consentì di ricostruire lo scheletro in ogni sua parte,
permettendo così di eliminare definitivamente ogni falsa reliquia.
Da allora, le spoglie dantesche riposano in pace a Ravenna.
In Santa Croce, a Firenze, fu eretto un imponente monumento funebre a Dante
ma con il sacello vuoto: neppure a sei secoli dalla morte fu concesso
all'esule sommo Vate il ritorno in patria.
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